Ho letto recentemente un articolo di Joshua A. Luna sul sito Harvard Business Review che mi trova d’accordo e che riprendo di seguito aggiungendo qualche nota molto personale sull’argomento e su come la pensiamo in MG3.
Si vedono spesso annunci di lavoro che descrivono l’azienda come una “famiglia”. Sempre più spesso leggiamo frasi del tipo: “Siamo una famiglia” oppure: “Benvenuto nella nostra famiglia” o ancora: “Siamo una famiglia con una mission”.
Viviamo almeno un terzo del nostro tempo al lavoro ed è facile che il rapporto con i colleghi di lavoro scivoli su temi personali e rapporti sempre più stretti e non attinenti al lavoro stesso. Si creano rapporti di amicizia, di fiducia e di appoggio emotivo che vanno oltre l’ambito lavorativo. E’ facile che questo tipo di relazioni costruite sul posto di lavoro possano riflettere i rapporti famigliari.
Alcuni valori associati alla famiglia come l’empatia, il rispetto, il prendersi cura degli altri ed il senso di appartenenza sono certamente positivi, ma cercare di definirsi una famiglia a tutti gli effetti può essere molto dannoso dal punto di vista del business.
E’ quindi giusto definire la propria azienda una famiglia? A mio modo di vedere no.
Definire la propria azienda una famiglia può sembrare positivo ad un primo sguardo, ma nel medio periodo potrebbe creare dei problemi di performance del singolo e dell’organizzazione. Prima di tutto dobbiamo capire che la definizione di famiglia non è universale, ma molto influenzata dalle esperienze del singolo proprio con i famigliari e quindi non è escluso che possa essere associata a visioni positive quanto negative.
Non tutti hanno il desiderio di creare rapporti più personali e profondi con i propri colleghi, figurarsi farlo con l’azienda. In un contesto professionale i singoli potrebbero non voler condividere il proprio privato con altri, ma quando l’azienda si definisce una famiglia questo non può più accadere perché l’azienda stessa promuove la socializzazione per il bene comune. Quando un’azienda utilizza la metafora della famiglia lo fa per creare un ambiente che positivo ed empatico che trasforma i dipendenti da conoscenti a famigliari, fratelli e sorelle. Questo comporta un attaccamento dei dipendenti all’azienda e anche se può ridurre i conflitti e i disaccordi all’interno dell’organizzazione, la paura di mettere a dura prova il rapporto con i loro superiori (che ora sono visti come padri o madri) potrebbe far sentire i dipendenti come se dovessero condividere qualsiasi informazione venga loro richiesta.
Quando un individuo è parte di una famiglia è naturalmente portato a fare cose che possono non essere in linea con le proprie inclinazioni, a fare cose al di fuori delle proprie competenze. In più in una famiglia esistono i genitori ed i figli che in un’azienda si possono identificare nei titolari (o nel management) e nei dipendenti rispettivamente. In una famiglia i genitori impartiscono ordini che non vengono discussi dai figli. In azienda il risultato di ciò potrebbe essere che un dipendente si senta sottovalutato e che senta il peso della frustrazione dovuta all’impossibilità di dare un contributo personale alla riuscita di un progetto.
Un altro problema viene con l’abbandono dell’azienda da parte di un dipendente o viceversa. Da una famiglia non si può essere licenziati e non si può uscire. Di una famiglia si fa parte dalla nascita e non si è legati a logiche di performance. Creare una cultura aziendale che paragoni l’organizzazione ad una famiglia si riflette nell’illusione che il rapporto possa continuare per sempre. Nelle aziende che si propongono come una famiglia il licenziamento non è contemplato dai dipendenti e le dimissioni non sono considerabili dalla proprietà o dal management. L’azienda famiglia è un monolite.
Cosa dovrebbero fare le aziende?
Le aziende dovrebbero tracciare una linea netta tra la vita lavorativa e quella privata dei propri dipendenti, definire gli obiettivi dei dipendenti in termini di performances e ricercare un bilanciamento tra orario lavorativo e vita privata. Per questo paragonare l’azienda alla famiglia è un errore. Nella mia personale esperienza un’azienda è più simile ad una squadra sportiva, all’equipaggio di una nave piuttosto che ad una famiglia. Nel descriversi le aziende dovrebbero distinguere il “siamo una cosa sola” dal “abbiamo tutti uno scopo” promuovendo una visione comune. Alcune ricerche suggeriscono che le aziende orientate alla condivisione di uno scopo hanno maggiori possibilità di successo, soprattutto quando lo scopo aziendale si sovrappone allo scopo del singolo dipendente creando un rafforzamento del concetto. Uno scopo condiviso conduce tutti lungo lo stesso percorso. Accettare il fatto che le strade possano separarsi o trasformarsi. I dipendenti possono essere ricollocati in azienda in altri ruoli quando le loro competenze non sono più necessarie ad un progetto oppure aiutati a cercare altrove. Non è un dramma e non deve essere vissuto come tale. Le aziende e le persone che ne fanno parte evolvono e cambiano, cambiano le esigenze del singolo e dell’organizzazione.
Ho imparato questi pochi concetti attraverso la mia esperienza sportiva e cerco di applicarli anche in azienda. Siamo un team in cui ognuno deve continuare ad essere se stesso, partecipando alle scelte secondo le proprie competenze pur restando responsabile delle proprie performances che inevitabilmente influenzano il raggiungimento degli obiettivi comuni. Sviluppiamo le competenze relative al lavoro in team e condividiamo la rotta, ma non chiediamo di portare in azienda il proprio privato. Quella è e deve restare una scelta personale.
Per questo quando qualcuno entra a far parte di MG3 lo accogliamo con un: “Benvenuto a bordo”.